Un memoir che contiene un romanzo che contiene un paio di fantasy. Margaret Atwood ha speso le sue energie a fare funzionare il gioco d’incastro, che in effetti scorre abbastanza. Nel lavoro di bricolage ha trascurato il lettore, che vaga per 500 pagine nell’armadio IKEA quattro stagioni senza-nemmeno-un-chiodo, fra gli eleganti abiti anni trenta di Iris, gli abiti da casalinga ottantenne della stessa Iris, i pepli iridescenti della fanciulla di Sakiel-Norn e i boxer rossi degli uomini coccodrillo: senza trovare senso, intrattenimento, ristoro. (Perché ho perseverato? Perché speravo in un colpo d’ala dell’ottima autrice). Disappunto a parte, la protagonista è una diciottenne che fa un matrimonio di interesse e dall’alto della superiorità sociale disprezza la famiglia del marito più vecchio di lei – arricchiti -. Si sente trattata come una pupattola - ed è una pupattola - e così precipitando. Le altre figure sono bidimensionali, non hanno quasi il dono della parola. Gli impulsi filantropico/marxisti della bella fanno ridere, si concludono in camere d’albergo. La cosa che non comprendo è l’alto gradimento che questo libro ha incontrato.
