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Anno edizione: 2016
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L’Autore si spinge in ambientazioni per lui inusuali, su un mercantile in crociera lungo i fiordi norvegesi, con l’iniziale presentimento del malocchio che il capitano sente aleggiare sull’imbarcazione e che si rivelerà un effettivo presagio di traversie. Ma le atmosfere rimangono le stesse, dense e tenebrose, e gli ingredienti sono analoghi – una enigmatica donna fatale, un passeggero introvabile, un misterioso assassinio a bordo durante la navigazione, un terzo ufficiale dal comportamento ambiguo – e creano quelle arie torbide ed equivoche così familiari a Simenon. Il lettore avverte il freddo polare nelle ossa, gli odori pesanti di letti disfatti, i profumi dozzinali, il lezzo del pesce trasportato che avvolge la nave. Anche lontano dai climi parigini o della provincia francese lo scrittore fornisce una prova del suo stile inconfondibile.
Uno dei più bei romanzi di Simenon, mi è piaciuto tantissimo. Bella l'ambientazione a tinte nordiche a bordo in un cargo, intenso l'intreccio di relazioni umane.
Simenon non si smentisce mai.Anche in questo che é uno dei suoi primi romanzi(scritto ottantasette anni fa!)sono presenti gli elementi che caratterizzano tutta la sua produzione letteraria,ossia una profonda analisi psicologica dei personaggi,un ambiente chiuso,un paio di delitti e una vasta gamma di quelle umane passioni che possono mettere in moto gli eventi più incredibili.Davvero notevole il personaggio del comandante Petersen e di Katia,orchestrati magnificamente e già molto ben definiti dopo poche pagine.Ciò che l'autore mette in risalto,come di consueto in gran parte delle sue opere,é come vizi di varia natura possano spingere le persone a cadere sempre più in basso negando loro qualsiasi possibilità di redenzione,assecondando quella che sembra essere una tendenza autodistruttiva innata nell'animo dell'essere umano.Ennesima,grandissima prova di uno dei giganti della letteratura di tutti i tempi
Recensioni
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L’oblò della cabina emanava una luce tetra. Il capitano vi incollò per un istante la faccia, intuì che prima di notte la nebbia sarebbe stata di nuovo fitta come il giorno precedente, tese l’orecchio al ronzio delle macchine e si sedette alla scrivania.
“Si. Mais non…”
Quale destino – se non una luminosa vocazione di narratore – può attendere un uomo che nel proprio nome riassume il principio fondamentale su cui poggia ogni buona storia?
Sì, le cose sembrano rollare e beccheggiare nel loro tranquillo tran tran: il panettiere all’angolo continua a sfornare le baguettes più croccanti del quartiere. Sì, le gambe tornite di sua moglie che si arrampica sulla scala per prendere la scatola di dolci continuano a essere le più belle del boulevard e ad attirare (forse un po’ più del dovuto) lo sguardo di clienti puntualissimi. Sì, il signor Hire sembra un monumento alla tranquilla insignificanza che impasta la malta dei boulevard disegnati da Haussman e permette a Parigi di continuare a esistere come un vitale carosello senza sprofondare nel caos e nell’entropia.
Mais non: a un certo punto, nel profumo di pane s’insinua una nota acidula, come di un lievito scaduto.
E noi sappiamo sin da subito che in quell’aroma troppo pronunciato si annuncia l’ingrediente che farà gonfiare sotto i nostri occhi la storia imbastita dal demiurgo Simenon.
Qualcosa va storto, insomma, e una smagliatura nell’ordine delle cose è sempre la crepa attraverso la quale la storia stessa viene al mondo e si presenta a noi.
Simenon parte spesso da ciò che conosce, ma accade a volte che tuffi la penna nell’inchiostro di fiumi sconosciuti, e il risultato sconfessa quanti possono credere che la forza di questa formidabile “macchina da scrivere” risieda esclusivamente nelle atmosfere che è capace di evocare. In Simenon c’è ben più di questo. L’abbiamo visto in tutte le escursioni fuori dalla “comfort zone” per lui rappresentata dal filone Maigret: la saga familiar-mafiosa de “I fratelli Rico”, le tinte livide e passionali a un tempo di “Tre camere a Manhattan, gli accenti kafkiani de “L’assassino”. Tutto reso credibile, a qualsiasi latitudine e sotto il cappello di qualsiasi genere, da uno sguardo attentissimo alle psicologie, da un orecchio pressoché infallibile per i dialoghi e da una conclamata propensione per l’andare al sodo, senza indulgere in calligrafismi.
Nel caso di “Il passeggero del Polarlys”, il nostro scrittore adotta il metodo dell’entomologo: mette un manipolo di personaggi peculiarmente simenoniani sotto osservazione in un ambiente chiuso, e il più claustrofobico che si possa immaginare: una nave che dal porto di Amburgo parte verso la Norvegia, dove avrà luogo uno scambio di merci. A bordo, oltre al capitano Petersen, figura circonfusa da un alone di morale protestante, si avvicendano i movimenti (necessariamente limitati) di alcuni marinai, dei macchinisti e dei pochi passeggeri che sono saliti a bordo. Fra i cinque, spicca una donna il cui nome – Katia Storm – è presagio della tempesta che attende il Polarlys e il suo equipaggio, e brilla per assenza un altro passeggero, scomparso subito dopo essersi imbarcato. Cosa succede sul Polarlys? A chi spetterà sciogliere la gassa d’amante che sembra imbrigliare questi personaggi e condannarli a un naufragio che pare esistenziale?
Nel modulo infallibile che informa ogni prova maggiore di Simenon, c’è il compendio di un’arte del racconto portata al suo pieno compimento. Sono solo romanzi, ma pare di sentire il crepitare di un camino acceso ogni volta che si gira una pagina.
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