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Sulla meridiana al cimitero di Rhêmes c'era scritta negli Anni Settanta una frase che forse è ancora là: «Nos jours passent comme l'ombre». I nostri giorni passano come l'ombra. Ernesto Ferrero l'aveva scelta per titolo al capitolo sui seminari einaudiani pubblicato in I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli). Valeva una domanda: che trova ora risposta in Rhêmes o della felicità, per l'editore Liaison di Courmayeur, allo stesso tempo saggio sul rapporto tra scrittori e montagna, ricordo vibrante di quegli anni in cui l'Einaudi era una sorta di religione laica, e memoir d'autore dedicato significativamente alla moglie Carla. In quella «icona di una felicità irraggiungibile e non più ripetibile, perfetta nell'immobilità del ricordo» rappresentata dal piccolo centro valdostano, è la consapevolezza di allora che «i nostri giorni non sarebbero passati come l'ombra». Poi ci sono gli aneddoti, le lievi ironie in cui Ferrero eccelle, per esempio ricordando con umoristica dolcezza le passioni terzomondistiche, quando rapiti dall'oratoria di Ruggiero Romano «ci vergognavamo di non parlare il quechua, lingua andina per eccellenza». Le ultime righe del racconto, dove la sua storia d'amore con la ragazza dalla «pelliccetta di marmotta» culmina nel matrimonio, sono dedicate ai regali dell'Editore: una pianta di limone, un gelsomino di San Giuseppe, una forsizia, una camelia, una rosa. L'aneddotica su Giulio Einaudi è ricca e affettuosa, dal celebre litigio con Giorgio Manganelli per questioni di forchetta alle reprimende messe all'ordine del giorno contro l'assenza di Calvino che «tiene più alla famiglia». Ma non è questo il cuore del libro. Parallelo al memoir corre il gusto non solo critico di mettere in rapporto quegli stili di scrittura (per esempio Lalla Romano, ma anche Mila, Levi, Rigoni Stern, Venturi, Calvino) e la montagna, con le sue durezze, la sua disciplina. Da Calvino che «le gambe se le è fatte da partigiano» a Cesare Cases, che da cittadino fatica un po' e «malgrado la tosse da fumatore» arranca e resiste, ciò che resta è una grande scuola e un'altissima idea di lavoro e di servizio. Una felicità appunto. Quella che si può solo conquistare.
(Mario Baudino, La Stampa, 30 dicembre 2008).
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